Il censimento dei web project manager

Aggiornamento del 15 aprile 2009: ho pubblicato i risultati del sondaggio 2008

In “Introduzione al web project management” ho parlato del mio lavoro di web project manager: la collaborazione con clienti, colleghi e consulenti e le sfide in ambito di organizzazione, di previsione e di delega.

Ciascuna voce di questo elenco merita senza dubbio un approfondimento: per iniziare vengono in aiuto i risultati di un sondaggio svolto dalla webzine A List Apart tra aprile e maggio del 2007 e rivolto alle diverse figure professionali impegnate nella costruzione di un sito o di una applicazione web.

Partendo da queste informazioni (reperibili in formato PDF) ho cercato di analizzare i risultati facendo perno sulla figura del web project manager, motivando il perché di alcuni risultati e proponendo qualche ulteriore dettaglio.

In sintesi quello che emerge dal sondaggio è che il web project manager è un professionista altamente soddisfatto del proprio lavoro, il più soddisfatto tra le diverse figure che operano nel web. Il web project manager trova lavoro in web agency e software house piuttosto che come libero professionista; in crescita è però la collocazione all’interno di giovani startup. Dai dati presentati nel sondaggio sembra inoltre che il processo formativo che porta a diventare web project manager passi dalla programmazione, soprattutto lato server, piuttosto che da altre discipline, come per esempio la grafica o il web design.

Entriamo quindi nel dettaglio di questi e altri risultati. Vale la pena notare come nei diagrammi che compongono il sondaggio si faccia riferimento alle diverse professionalità web, che è sempre difficile definire con chiarezza. Un buon inizio per approfondire il ruolo e la composizione di un team di lavoro nel web è dato degli ormai datati, ma sempre attuali, The Ideal Web Team 1 e The Ideal Web Team 2, scritti da Peter-Paul Koch per Digital Web Magazine. Un altro interessante intervento è Project Team Roles Definitions, scritto da Marios Alexandrou.

Percentuale di web project manager

Job TitleLa prima informazione che è possibile estrarre dal sondaggio di A List Apart è, secondo il campione analizzato, la percentuale di project manager impegnati in progetti web. Si tratta di un po’ meno del 4%, cifra a prima vista esigua. In realtà, dato che ancora oggi la maggioranza dei progetti web è realizzata come attività di consulenza o da team medio/piccoli, il valore è significativo. Un web project manager viene infatti impiegato quando il numero di collaboratori al progetto è, indicativamente, di tre o più, con una media che probabilmente si avvicina alle cinque persone. Non sorprende inolte che a seguire nella classifica si trovino le figure professionali che sono impegnate solo in siti e applicazioni di medio e alto investimento, come information architect ed esperti di usabilità e accessibilità.

Distribuzione dei web project manager per tipo di organizzazione

Job title distribution by organization typeIl grafico qui sopra indica la percentuale di web project manager impiegata nei diversi settori organizzativi: web agency, aziende non profit, uffici pubblici, realtà no-profit, scuole, università, startup o che svolgono la libera professione.

E’ interessante notare che il 5.4%, cioè la percentuale più alta di web project manager se raffrontata alle altre specializzazioni, trova lavoro presso una startup. Se pensiamo al ruolo di una startup, composta da un team variegato ma spesso ridotto di figure professionali, impegnate in frequenti rilasci di prodotto, si capisce l’importanza del ruolo di un web project manager, come garante del rispetto dei tempi di consegna e del consolidamento dello spirito di squadra. Cambia quindi l’immagine della startup, vista erroneamente come realtà composta da giovani ex-studenti, governata senza regole e orari di lavoro. In realtà proprio in strutture di questo tipo, dove è fondamentale che i diversi attori lavorino in sinergia, nel rispetto dei tempi stabili, e molto spesso utilizzando strumenti all’avanguardia, il ruolo di leader del web project manager ne giustifica l’impiego in percentuale più elevata rispetto alle altre organizzazioni operanti nel web.

Non stupisce invece che il secondo settore di impiego del web project manager siano le web agency o le software house, terreni naturali in cui si muove questa figura professionale. E non stupisce nemmeno che solo l’1.9% dei web project manager, rispetto agli altri colleghi, si trovi a lavorare come consulente freelance. Il web project manager non solo lavora in team, ma dovrebbe conoscere molto bene gli altri componenti del gruppo. E questo, a meno di commesse a lungo termine, difficilmente si verifica nel ruolo di freelance.

Distribuzione dei web project manager per gruppo di età

Job title distribution by age groupLa maggioranza dei web project manager, sempre rispetto alle altre professionalità web, ha un’età compresa nelle due fasce 33-38 e 39-50. Poiché non si “nasce” web project manager, ma le competenze per diventarlo si acquisiscono con il tempo, non stupisce che la percentuale più elevata si trovi al di sopra dei 30 anni. Non è l’unica professionalità ad esprimersi in queste fasce, poiché lo stesso accade ad esempio per i direttori creativi, gli esperti di usabilità e i webmaster

Distribuzione per sesso

Gender distribution by job titleLa percentuale di distribuzione per sesso per quanto riguarda un web project manager è in linea con le altre professioni che lavorano a un progetto web, fatta eccezione per chi si occupa del copywriting, dove esiste una distribuzione quasi paritaria, e per chi si occupa dello sviluppo, professione appannaggio tipicamente dei maschi.

Percentuale di lavoratori con retribuzione superiore a 100.000 dollari

Percentage of job title holders who earns salary of $1000KIl grafico è difficilmente rapportabile alla realtà italiana. E’ comunque interessante notare come il salario di un web project manager si trovi ad essere compreso tra quello di chi si trova a svolgere prevalentemente un ruolo da consulente, come chi si occupa di information architecture, usabilità, interface design e quello delle figure coordinate dal web project manager.

Rilevanza dell’istruzione per lo svolgimento del proprio lavoro

Perceived relevance of education by job titleQuanto la preparazione data dagli studi superiori o universitari ha aiutato nello svolgimento del proprio lavoro? Non molto, secondo i web project manager intervistati, che sono i più pessimisti, secondi solo ai copywriter. Il risultato dipende probabilmente dall’eterogeneità di competenze necessarie per svolgere efficacemente il ruolo di web project manager, che spaziano da quelle tecniche alle capacità di dialogo con clienti e con il proprio gruppo di lavoro (di questo ho parlato in “Introduzione al web project management“). Quella del web project manager, infatti, è una professione in crescita: non si esce dalla scuola o dall’università per lavorare come web project manager; se qualcuno lo fa non è web project manager (Project manager: leader o ragioniere?). Il mix di competenze si acquisisce con l’esperienza. Scuola e università giocano sicuramente un ruolo di primo piano, ma non sono da sole sufficienti.

Soddisfazione per il proprio lavoro

Job satisfaction by job titleUna bella notizia. Secondo questo sondaggio, tra le diverse professionalità che lavorano nel web, quella del web project manager è la più soddisfatta del proprio lavoro. Più della metà dei web project manager intervistati si dichiara contento del proprio impiego. Il risultato forse si spiega con la varietà di professionalità e possibilità che accompagnano il lavoro di un web project manager: avere la possibilità di coordinare un gruppo di lavoro al raggiungimento di un obiettivo, di confrontare le proprie idee con clienti, fornitori e con la direzione aziendale.

La percentuale di web project manager che scrive in un blog

Prevalence of blogging by job titleRidotta, rispetto alla media, la percentuale di web project manager che gestisce o scrive per un blog. Il motivo è probabilmente da ricercare nella difficoltà di esprimere concetti relativi a una professionalità così variegata e poco “pratica”, ma fatta di interazioni e rapporti personali.

Partecipazione a eventi formativi

Participation in formal training by job titleStando ai risultati di questo sondaggio, il web project manager è una delle figure professionali che più partecipa a conferenze, corsi, sessioni formative. Sarebbe stato interessante sapere qualcosa di più sul tipo di eventi, anche se una probabile ipotesi è che non si tratti esclusivamente di formazione a carattere tecnico, ma anche manageriale, come per esempio corsi legati alla gestione delle risorse umane e dei processi aziendali.

Lacune professionali

Perceived back end skill gaps by job titleRiporto uno solo dei 4 grafici che indicano le difficoltà che i web project manager dichiarano di avere nello svolgimento del proprio lavoro. Relativamente alla programmazione lato server il 30% dichiara di avere lacune. Più alta la percentuale per quanto riguarda la programmazione front-end, tipicamente javascript (37.2%), la programmazione CSS (37,6%) e di markup (35.1%). Il web project manager si trova quindi a proprio agio più con le tecnologie di programmazione lato server rispetto a quelle client. Anche qui è possibile azzardare qualche ipotesi. La più probabile è che il percorso formativo che porta a diventare web project manager passi il più delle volte da ambiti vicini alla programmazione, piuttosto che dalla grafica o dal web design.

Un anno di letture – prima parte

Le vacanze di Natale sono per me l’occasione per terminare alcune letture professionali, soprattutto libri, che da un po’ di tempo aspettano di essere concluse. Di alcuni di questi libri parlo qui, lasciando a futuri interventi gli altri.

Più che recensioni si tratta di un insieme di spunti che ho trovato particolarmente utili nel mio lavoro, anche se in alcune occasioni non nascondo la delusione nel trovarmi di fronte a qualche prodotto che avrebbe potuto essere migliore.

Di solito non lascio questi libri intonsi: mi piace sottolineare frasi e paragrafi che ho trovato significativi, e che in qualche caso riporterò.

The cult of the amateur – Andrew Keen

Non si può certo dire, dopo averlo ascoltato al Le Web 3, che Andrew Keen sia una persona che sprigioni simpatia.

The cult of the amateurLo stesso tono si trova anche nel libro che ha scritto lo scorso anno, il cui sottotitolo la dice lunga: “How today’s internet is killing our culture”.

La tesi di Keen è presto detta: il web 2.0 è un’accozzaglia di contenuti il cui valore è paragonabile a quello della spazzatura, anche Wikipedia non si salva; la nascita dei siti di social networking non ha fatto altro che spostare gli incauti fruitori di informazione da siti giornalistici rinomati e specializzati a fonti di dubbia professionalità, portando alla morte diverse testate; combattere contro i contenuti liberi, anche se scadenti, è impossibile per le grandi major discografiche e cinematografiche.

Un testo da evitare, quindi? Tutt’altro. Al di là di queste e altri frasi sensazionalistiche, il libro di Andrew Keen evidenzia correttamente alcuni aspetti ancora poco chiari dell’economia basata su questo web 2.0.

Keen si chiede per esempio chi siano i proprietari di tutto il contenuto che produciamo con tutte queste piattaforme di social networking. Sottolinea anche la necessità, soprattutto per i più giovani, di maturare una forte coscienza critica che permetta di discernere tra la moltitudine di contenuti a disposizione, piuttosto che soffermarsi alla prima fonte trovata.

Qualche citazione

  • Giornali e riviste, tra le più affidabili fonti di informazione del mondo in cui viviamo, stanno crollando, grazie ai blog gratuiti (pagina 8, mia traduzione)
  • Chi è il proprietario del contenuto creato [su Myspace]? Questa definizione nebulosa di proprietà, unita alla facilità con cui possiamo copiare e incollare il lavoro di altri come se fosse nostro, è risultato in una serie di appropriazioni della proprietà intellettuale (pagina 23, mia traduzione)
  • Il culto dell’amatore fa si che sia difficile capire quale sia la differenza tra lettore e scrittore, tra artista e manipolatore, tra amatore ed esperto. Il risultato? Il declino della qualità e affidabilità dell’informazione che consumiamo (pagina 27, mia traduzione)
  • Ogni casa discografica defunta, ogni reporter lasciato a casa, ogni libreria chiusa sono la conseguenza del contenuto libero generato dagli utenti in internet (pagina 27, mia traduzione)
  • Ogni visita all’informazione libera di Wikipedia significa un cliente in meno per un’enciclopedia professionale come l’enciclopedia Britannica (pagina 29, mia traduzione)
  • Il talento è una risorsa limitata. Non troverete del talento dietro l’individuo annegato nel suo pigiama davanti al computer, che se ne esce con assurdi interventi nel suo blog o recensioni anonime di film. Alimentare il talento richiede lavoro, capitale, esperienza, investimenti. Richiede l’infrastruttura dei media tradizionali – i talent scout, gli agenti, gli editori, i pubblicisti, i tecnici, il marketing. Il talento è costruito dagli intermediari. Se togliete gli intermediari, togliete anche lo sviluppo dei talenti. Ecco perché l’economia espressa in “The long tail” di Chris Anderson è sbagliata (pagina 32/33, mia traduzione)
  • Su Wikipedia, 2 più 2 a volte fa 5 (pagina 40, mia traduzione)
  • Nel culto dell’amatore, quelli che sanno di più possono essere soffocati da quelli che sanno di meno (pagina 43, mia traduzione)
  • L’informazione gratuita non è gratuita, perché dobbiamo considerare il tempo speso per leggerla con occhio scettico (pagina 46, mia traduzione)
  • La responsabilità di un giornalista è quella di informarci, non di conversare con noi (in risposta a We The Media di Dan Gillmor, pagina 49, mia traduzione)
  • Google è un parassita, perché non crea contenuto (pagina 135, mia traduzione)

Voto

6.5 su 10

Si consiglia di consumare in abbinamento con

  • We the Media, di Dal Gillmor
  • The Long Tail, di Chris Anderson
  • Cultura Convergente, di Henry Jenkins (recensione in questo stesso intervento)
  • Arcipelago Web, di David Weinberger (recensione in L’eredità di Small Pieces Loosely Joined)

Altre informazioni

The cult of the amateur, di Andrew Keen, pubblicato da Doubleday, circa 230 pagine, 22.95 dollari

Cultura convergente – Henry Jenkins

Cultura convergentePer chi ha trovato semplicistico e fuorviante quanto raccontato da Andrew Keen in “The cult of the amateur” viene in aiuto, quasi troppo, questo libro di Henry Jenkins. In questo testo si parla di come i produttori di media (televisione, cinema, editoria) sempre più utilizzino mezzi diversificati per fidelizzare i propri utenti e di come, allo stesso tempo, i fan di questi prodotti utilizzino gli stessi media per amplificare e arricchire la loro esperienza.

Ogni capitolo, in questo libro, ruota intorno al dualismo (a volte in contrapposizione, altre in partecipazione) tra azienda produttrice e consumatore, più che altro consumatore affezionato e appassionato, vero e proprio fan.

Appassionati della serie televisiva “Survivor”, che condividono via web le loro analisi per cercare di scoprire, prima che sia reso noto a più, chi ha vinto il reality, e in quale location è stato girato. Appassionati di “American Idol”, tanto appassionati da essere ricercati dagli sponsor della trasmissione. Appassionati di “Star Wars”, che realizzano film amatoriali, alcuni dei quali con effetti e sceneggiature di tutto rispetto (come per esempio Star Wars Revelations). Ragazzini appassionati di Harry Potter che realizzano racconti e avventure che trattano temi secondari rispetto alla saga, ma non per questo meno importanti.

In alcuni casi queste produzioni amatoriali non sono viste di buon occhio da chi detiene il copyright, aziende con il timore di perdere il controllo su quella che considerano essere la loro gallina dalle uova d’oro. Qui rientra la maggioranza dei casi. In pochi altri invece, dopo una prima fase di cautela, le aziende produttrici si sono dimostrate tolleranti riguardo le produzioni dei loro fan, fino ad arrivare a coinvolgerli attivamente, mettendo loro a disposizione materiale dedicato e promuovendo concorsi e incontri. Sempre, però, definendo chiaramente i limiti da non superare. Le aziende produttrici si stanno comunque rendendo conto che lo zoccolo duro dei propri utenti, i veri e propri fan, sono la fonte più preziosa di guadagno, sia diretto, sia indiretto, grazie alla visibilità che i gruppi di utenti oggi riescono a raggiungere grazie a strumenti quali il web.

Jenkins cita nel libro un testo scritto da Peter Walsh (e recuperabile in internet, That Withered Paradigm: The Web, the Expert, and the Information Hegemony) e che tratta della differenza tra “il paradigma dell’esperto” e “l’intelligenza collettiva”, cioè di come internet e i media sociali stiano cambiando il modo di intendere il ruolo della competenza e professionalità. Una lettura consigliata.

Quello di Jenkins è un testo che non sembra avere dirette influenze verso chi sviluppa un sito web, ma solo a prima vista. Penso in particolare alla corposa sezione in cui Jenkins sottolinea l’importanza, per un’azienda, di non considerare i diversi media con cui si presenta ai clienti come compartimenti tra loro stagni.

Certo, Jenkins fa riferimento prima di tutto alle produzioni cinematografiche di Hollywood e ad esempi come la trilogia di Matrix, in cui il film, il videogame, i cartoni animati e i fumetti sono stati progettati come facenti parte del medesimo universo. In realtà questo dovrebbe essere vero anche per il sito dei nostri clienti. Quante volte ci troviamo a lavorare con foto e contenuti che sono stati pensati esclusivamente per il cartaceo, senza che qualcuno si sia preoccupato (in tempi “non sospetti”) di realizzare il materiale da utilizzare anche per il sito web?

Cultura convergente è un testo appassionante, soprattutto perché chi lo scrive è prima di tutto un fan e non lesina aneddoti e “casi studio” davvero curiosi. A dire il vero si sarebbe potuto forse rinunciare ad approfondire così nel dettaglio i diversi esempi, senza per questo togliere importanza al lavoro dell’autore. Unica vera nota negativa la presenza di svariati refusi nella traduzione italiana.

Qualche citazione

  • La convergenza tra media è molto più che un semplice cambiamento tecnologico, alterando invece i rapporti tra i pubblici, i generi, i mercati, le imprese e le tecnologie esistenti (pagina XXXIX)
  • La convergenza è sia un processo discendente, dall’alto verso il basso, guidato dalle corporation, che una dinamica ascendente, dal basso verso l’alto, guidata dai consumatori (pagina XLI)
  • Ciò che tiene unita un’intelligenza collettiva non è il possesso del sapere, ma il processo sociale di acquisizione della conoscenza in quanto dinamico e partecipativo (pagina 34)
  • Quando la gente guarda un programma che le piace, è più sensibile agli spot che vanno in onda (pagina 42)
  • La fedeltà al brand è il santo graal dell’economia affettiva grazie alla “regola 80/20”: per molti prodotti di consumo, l’80% degli acquisti è effettuato dal 20% dei consumatori (pagina 56)
  • Le aziende che allentano il controllo sul copyright attireranno i consumatori più attivi e impegnati, mentre quelle che spietatamente fissano limiti ben precisi si troveranno una fetta sempre più piccola del mercato (pagina 166)
  • La migliore soluzione legale per uscire dalle sabbie mobili potrebbe essere una riforma normativa sull’uso equo, che renda legittima la circolazione di saggi critici e storie a commento di contenuti mediatici, qualora essa sia di origine grassroots e non finalizzata al profitto (pagina 202)
  • I candidati possono costruirsi la propria base su internet, ma hanno bisogno della televisione per vincere le elezioni (pagina 231)

Voto

8 su 10

Altre informazioni

Cultura convergente, di Henry Jenkins – Titolo originale Convergence Culture – pubblicato in italia da Apogeo – 370 pagine – 22.00 euro

Learning jQuery

Learning jQueryIn più di un’occasione ci siamo trovati, lo scorso anno, a realizzare progetti (soprattutto intranet) in cui utilizzare interazioni Ajax più o meno complesse.

Tra i diversi framework disponibili la scelta è caduta su jQuery, più per caso che per scelta accurata. Di documentazione in rete relativamente a jQuery non c’è che l’imbarazzo della scelta. Vista la volontà che sia web designer, sia sviluppatori potessero in futuro lavorare con jQuery, quello che cercavamo era un testo che si proponesse di partire dalle basi, anche visto l’efficace utilizzo delle nomenclature in stile CSS di jQuery, senza dare troppe competenze per scontate.

E Learning Jquery riesce, quasi sempre, a raggiungere questo scopo. Esagererei se dicessi che sia sufficiente conoscere HTML e CSS per padroneggiare i concetti espressi, senza aver mai visto una riga di Javascript. Non è così: Javascript va conosciuto, ma soprattutto è necessaria un’infarinatura sul funzionamento di un linguaggio di programmazione.

Quello che gli autori sono riusciti a fare bene è introdurre i diversi concetto della programmazione in jQuery a progressivi livello di difficoltà, cercando allo stesso tempo di realizzare un esempio didattico completo, nello specifico il catalogo di un sito di ecommerce di libri. L’editore e gli autori hanno anche saputo resistere alla facile tentazione di includere nel testo anche una guida di riferimento, al solo scopo di aumentare il numero di pagine e di conseguenza il costo.

La reference guide esiste però come testo acquistabile a parte, redatto dagli stessi autori ed è decisamente ricca di esempi, anche se la maggior parte è a dire il vero un po’ troppo banale.

Il testo di Learning jQuery nasce per opera degli autori del blog che porta lo stesso nome, learningjquery.com. Poiché è il libro a nascere dopo il sito, e non viceversa, non si corre per fortuna il rischio di trovare interventi fermi a mesi fa; il blog è in realtà molto aggiornato e, indipendentemente che decidiate o meno l’acquisto del testo, è una sicura risorsa di interesse da aggiungere al proprio lettore di feed.

Informazioni

Learning jQuery, di Karl Swedberg, Jonathan Chaffer – edito da Packt Publishing – pagine 380 – 36.99 euro

Organizzare la conoscenza

Organizzare la conoscenzaOrganizzare la conoscenza parla di architettura dell’informazione e quindi potrebbe sembrare che, in qualche modo, “faccia concorrenza” con quella che viene considerata la bibbia dell’architettura dell’informazione: Information Architecture for the World Wide Web di Lou Rosenfeld e Peter Morville. Forse è anche per questo che il testo ha atteso nel mio scaffale un anno buono prima di essere letto.

In realtà così non è. Il respiro di Organizzare la conoscenza è infatti più ampio e abbraccia, oltre al web, anche altri ambiti, come per esempio l’ambito bibliotecario, che è poi la culla dell’architettura dell’informazione.

Può sembrare un controsenso, ma iniziare un testo come questo dalle biblioteche per poi arrivare all’architettura dell’informazione sul web permette di introdurre e approfondire concetti che Rosenfeld e Morville hanno trattato solo marginalmente, rendendo più chiaro quello che è il lavoro di un architetto dell’informazione nel web.

Tra i diversi capitoli, ho trovato particolarmente illuminanti i centrali, il quinto, sesto e settimo. Più che per le definizioni e i concetti espressi (faccette, classificazioni gerarchico-enumerative, tesauri, gerarchie, ecc.), che si ritrovano in Information Architecture for the World Wide Web, sono stati gli esempi a chiarire alcuni dubbi. La directory di Yahoo!, per esempio, utilizza uno schema di classificazione ibrido con categorie non mutuamente esclusive, situazione abbastanza comune per i siti web.

Se avete acquistato Information Architecture for the World Wide Web e sentite di aver bisogno di qualche esempio in più per fissare i concetti appresi, questo testo potrebbe fare al caso vostro.

Informazioni

Organizzare la conoscenza – di Claudio Gnoli, Vittorio Marino, Luca Rosati – edito da Hops Tecniche Nuove – pagine 214 – 18.90 euro

Saper comunicare

I giudici della competizione di startup qui a Le Web 3 hanno detto la loro sui prodotti presentati, ma anche sulle presentazioni di accompagnamento. Tra le critiche condivise:

  • mancanza di obiettivi precisi – quale è il problema che si tenta di risolvere?
  • minuti spesi a parlare della startup invece del prodotto
  • molte startup risolvono problemi troppo piccoli, hanno paura di osare di più
  • speaker “titubanti”, presentazioni non pensate e progettate a dovere (“ogni minuto deve essere programmato, limato, imparato a memoria”)

Di presentazioni “titubanti” ne ho viste parecchie quest’anno, indipendentemente dall’importanza dello speaker, da Londra a Milano, da Roma a Parigi. Anzi, con l’aumentare di queste conferenze che ruotano attorno ai temi del web 2.0 sembra che la qualità delle presentazioni ne abbia sofferto. Dopo anni in cui l’elenco puntato di Powerpoint sembrava essere stato condannato a morte, capita sempre più spesso di imbattersi in dense slide con carattere corpo 12 lette parola per parola dallo speaker.