Dal nanopublishing al nanoplagiarism

Mi ha colpito l’intervento di Dario Salvelli di qualche mese fa, in cui l’autore parla di alcune brutte esperienze di nanopublishing, soprattutto riguardo i compensi esigui e dipendenti da variabili arbitrarie, come il successo del network su cui si scrive.

Non faccio troppa fatica a credergli. Probabilmente i contratti di questo tipo prevedono un compenso di pochi euro e la cifra non entusiasmante è giustificata dal fatto che non è necessario scrivere interventi lunghi o articolati, ma sono sufficienti pochi paragrafi. L’inserimento inoltre non richiede molto tempo, in quanto si basa su una piattaforma di blogging collaudata e facile da imparare, come per esempio WordPress. Basta avere un’idea e in pochi minuti si mette tutto online.

L’idea. E’ in effetti per l’idea che si dovrebbe essere pagati, non per la facilità di pubblicazione o per la brevità di un intervento. E avere una buona idea è tutt’altro che semplice e veloce: vuol dire leggere, studiare, prendere appunti, scarabocchiare, condividere, confrontare.

Pochi euro e allora il blogger si ingegna e mette in atto alcuni semplici escamotage. Il più usato prevede di produrre contenuti che sono traduzioni, più o meno palesi, di idee di qualcun altro, solitamente blog di argomento similare e in lingua inglese. E’ quello che fanno la maggior parte degli autori di nanopublishing in Italia. Che si tratti di sviluppo, web design, mondo Mac o open source, non vi ci vorrà più di mezz’ora per capire da quali fonti gli autori traggono le proprie ispirazioni. Più che nanopublishing varrebbe forse la pena chiamarlo nanoplagiarism.

Evidentemente va bene così. Tutto ingrassa, non si butta via nulla, come con il maiale. Sembra anche che vengano predisposte vere e proprie tabelle di marcia, maratone di pubblicazione, da quello che si capisce dall’intervento di Salvelli. Se rimani indietro, sei fuori.

Non ci sono per fortuna solo esempi negativi. E’ senza dubbio facile parlare bene di una realtà per cui si collabora, ma ritengo che Edit di html.it sia un’oasi felice. Oltre a essere un blog coordinato da figure di cui ho potuto apprezzare le capacità, anche lo spirito di squadra che si è venuto a creare nel tempo tra i diversi collaboratori rende elevata la qualità degli interventi. Eppure non c’è stato bisogno di stilare chissà quali regole o di spronare alla massima produttività.

Si potrebbe comunque fare di più anche in Edit e speravo che l’occasione potesse essere la migrazione a WordPress. Mi piacerebbe che il mio nome, ripetuto in testa a ogni intervento, non fosse collegato a un anonimo indirizzo di posta elettronica, ma a una pagina di profilo. E, per non rimanere sul vago, non a una pagina di profilo striminzita in cui ogni link è rigorosamente non cliccabile, per paura che un lettore su un milione abbandoni il sito.

Aspirerei a qualcosa di simile a quanto fa, egregiamente, il Time. Se entro in uno dei blog del network, per esempio quello di Lisa Takeuchi Cullen, trovo una foto e un breve profilo dell’autrice, oltre che un link a una pagina biografica approfondita.

Grazie alla visibilità che porta un profilo del genere sarei probabilmente disposto a scrivere anche senza compenso.

Aggiornamento del 25 Settembre 2008: Edit ha introdotto la pagina di profilo per gli autori. Sicuramente non come ha fatto il Time, ma è almeno un inizio.

Il personaggio dell’anno del Time

Il Time ha eletto noi, chi ha un blog, chi li commenta, chi carica le proprio foto su Flickr, i filmati su Youtube come personaggi dell’anno.

Il cosiddetto grassroots journalism, o giornalismo del popolo, è stata secondo il Time la vera rivoluzione di questo 2006, tanto da meritare la copertina a specchio in cuo ognuno di noi si può riflettere.

Leggendo il settimanale, però, ci si accorge ben presto che al di là di qualche articolo dal taglio molto generalista, neppure il Time sa perché ci ha sbattuto in copertina. L’articolo più corposo è composto da una serie di interviste a chi, persona della porta accanto, è uscito dalla folla conquistando i primi posti in Youtube, su Flickr e MSN Spaces. Carino, ma banale e ripetitivo.

L’unico pezzo degno di nota è probabilmente l’intervista di James Poniewozik ai creatori di YouTube, Chad Hurley e Steve Chen. Lo è perché fa sottolinea una volta di più come l’università americana si sforzi di preparare giovani di meno di trent’anni che le aziende si contendono.

Quando Hurley e Chen sono stati assunti da Paypal, il loro unico lavoro prima di approdare al progetto Youtube, sono stati scelti grazie agli atenei frequentati, grazie alla “formula vincente” del percorso di studio maturato.

Quanti in Italia sarebbero pronti a scommettere su chi è alla prima esperienza?