Come migliorare il processo di acquisto

Sono fortunato. Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di partecipare alla progettazione e realizzazione di alcuni tra gli e-commerce più importanti nati in Italia.

È bello, interessante e istruttivo lavorare per un e-commerce, perché il sito non è fine a sé stesso, ma a supporto della vendita e non solo deve funzionare, ma deve funzionare bene, benissimo.

Per chi lavora nel campo della user experience un sito di e-commerce presenta anche delle opportunità uniche per proporre e mettere in cantiere dei miglioramenti e verificarne immediatamente il risultato.

Tra le diverse aree di un sito di e-commerce mi piace mettermi al lavoro sul processo di checkout perché rappresenta una vera e propria sfida dove ogni testo, etichetta, bottone deve essere limato e lucidato per bene. Il processo di checkout è infatti composto da funzionalità che svolgono il duplice scopo di proporre al cliente (o, almeno, si spera lo diventi!) delle precise informazioni sulle operazioni che sta per compiere e di ricevere informazioni su come desidera concludere l’acquisto.

Avere la possibilità di compiere sessioni di multivariate testing a un processo di checkout penso sia un’esperienza che ogni specialista di user experience dovrebbe provare.

In più di un’occasione mi sarebbe piaciuto parlarne in un intervento, ma l’argomento è complesso e un articolo di pochi paragrafi, ma anche il capitolo di un libro rischiano di banalizzare o non far apprezzare l’attenzione e le strategie necessarie per la progettazione e verifica di un processo di checkout che funzioni in tutti i suoi aspetti.

Anche la stesura di una o più checklist di riferimento (di cui sono innamorato) ha poco senso, se non con un documento di dettaglio a corredo.

Ecco perché preferisco consigliarvi due interessanti report che si concentrano sul processo di acquisto approfondendone ogni dettaglio.

Il primo è E-Commerce Checkout Usability, scritto da Jamie Appleseed e Christian Holst del Baymard Institute. Si basa su sessioni di usability test che hanno coinvolto 10 utenti durante la navigazione di 15 siti di e-commerce: 1-800-Flowers, AllPosters, American Apparel, Amnesty Shop, Apple, HobbyTron, Levi’s, NewEgg, Nordstrom, Oakley, Perfume.com, PetSmart, Thomann, Walmart e Zappos.

Il risultato sono 63 linee guida raggruppate in 6 categorie (data input, copywriting, layout, navigation, flow, focus) che in 140 pagine affrontano con ricchezza di esempi, positivi e negativi, il processo di checkout. Alcune indicazioni sono sicuramente note a chi si occupa di user experience (come la progettazione dei form, argomento tra l’altro molto ben affrontato da Luke Wroblewski in Web Form Design), altre sono forse meno scontate.

Peccato che tra i molti esempi presentati pochi siano dedicati alla pagina del carrello, visto che logicamente è strettamente e strategicamente correlata al processo di checkout ed è forse la più importante dell’intero processo.

Interessante invece l’inclusione in appendice di 4 pagine di una checklist pronta da stampare.

Il report costa 78 dollari.

Il secondo studio che vi voglio presentare è E-commerce User Experience, vol. 4: Shopping Cart, Checkout and Registration realizzato da Amy Schade e Jakob Nielsen per il Nielsen Norman Group (e, quindi, non c’è bisogno di molte presentazioni). Il report fa parte di una serie di altri 13 report dedicati all’e-commerce, ma è comunque acquistabile singolarmente per 98 dollari.

E si tratta comunque di soldi ben spesi, perché gli autori non lesinano linee guida e esempi, tanto che il report di estende per più di 300 pagine ricche di screenshot, tabelle di approfondimento e best practices.

In questo caso il report nasce da una versione precedente del 2000 (di cui sono rimaste alcune linee guida) a cui sono stati aggiunti in questa nuova versione i risultati di user testing e eye tracking di utenti in più città europee, americane e asiatiche.

Rispetto al report del Baymard Institute, quello del Nielsen Norman Group risulta più approfondito e quindi richiede sicuramente un certo impegno per essere studiato in tutte le sue parti anche perché spesso le indicazioni più interessanti non stanno tanto nella linea guida in sé, ma nei dettagli presentati nel testo.

Non si può comunque definire un report noioso da leggere, visto che gli autori citano spesso le espressioni degli utenti sottoposti al test (giusto per fare un esempio: “That’s really a pain in the ass”).

Quale dei due report acquistare? Se non vi spaventa studiare più di 300 pagine, il report del Nielsen Norman group è sicuramente approfondito e dettagliato, ma se vi interessa un report comunque ricco di esempi, e con una comoda checklist pronta da stampare ed applicare, il report del del Baymard Institute rappresenta un’ottima alternativa, che vi permette anche di risparmiare qualche dollaro.

Ancora su recruitment e social network

Dopo Se il lavoro cerca te segnalo altri due studi, pubblicati da Jobvite, relativi al rapporto tra social media e recruitment. Analizzano il mercato del lavoro americano, ma sono comunque indicativi dell’evoluzione di questa pratica.

Si tratta di 33 essential recruiting stats e Social Job Seeker Survey 2011. In breve:

  • il 55% delle aziende intervistate investirà più risorse nel prossimo anno per il recruiting con i social network
  • più dell’80% delle aziende utilizzano LinkedIn, ma poco più del 30% di chi cerca lavoro è in LinkedIn
  • l’89% delle aziende americane intervistate indica di voler utilizzare i social network come strumento per il recruiting
  • LinkedIn si conferma, con il 73%, il principale social network in termini di assunzioni, seguito da Facebook (20%) e Twitter (7%)
  • 2/3 delle aziende intervistate hanno assunto anche grazie ai social network

Sullo stesso tema anche due interessanti infografiche pubblicate da Mashable, la prima con qualche suggerimento su come proteggere e migliorare la presenza professionale online, la seconda riporta invece i risultati di un sondaggio rivolto ai selezionatori e al rapporto con i social network.

E parlando di statistiche e sondaggi, vi ricordo che anche quest’anno, come è ormai tradizione,  A List Apart ne prepara uno rivolto a chiunque lavori con il web. Partendo dai risultati del sondaggio, gli scorsi anni ho cercato di darne un’interpretazione per cercare di capire meglio la professione del web project management:

La battaglia dei cloni di documenti

Un web project manager produce molti e diversi documenti tra cui analisi, presentazioni, benchmark, debrief, a volte anche wireframe. Lavoro per diverse aziende e capita che sia invitato a utilizzare dei modelli già realizzati con loghi, colori e font istituzionali.

È qui che comincia la battaglia. Se per realizzare la documentazione ho impiegato un paio d’ore, cercare di farla rientrare nel modello che mi è stato consegnato è spesso un’impresa titanica.

Il problema è che non si tratta, nella maggior parte dei casi, di veri e propri modelli, ma di cloni di documenti che sono stati svuotati del contenuto e cui mancano delle vere linee guida di formattazione.

Il tipo e la dimensione dei font e le spaziature non sono stati realizzati come degli stili, ma sono stati applicati al testo all’occorrenza. E se anche sono stati utilizzati degli stili, lo si è fatto solo per il testo principale e (forse) per una tipologia di intestazione.

È un approccio inefficiente per diverse ragioni:

  • ogni volta che viene inserito un nuovo elemento, ad esempio un titolo, questo va copiato e incollato mutuandolo dal precedente
  • si perde il valore “semantico” del documento: un’intestazione dovrebbe essere tale perché questa informazione è stata specificata nel documento, mentre in questi documenti lo è semplicemente perché utilizza un font “più grande” rispetto alle altre
  • la qualità degraderà nel tempo: i primi due documenti rispetteranno in qualche modo lo standard, i successivi perderanno man mano la formattazione voluta
  • è impossibile applicare gli stili in un secondo momento, per esempio nel caso di documenti già realizzati, che devono essere modificati a mano voce per voce

Questo si verifica con i documenti Word, ma non solo. Anche Powerpoint e Keynote soffrono dello stesso problema. Piuttosto che investire una mezza giornata per realizzare delle diapositive master che possono poi essere applicate in ogni presentazione, si preferisce realizzare una presentazione con alcune slide che sono poi copiate e incollate più e più volte.

Quando mi viene proposto di utilizzare un modello aziendale per produrre documentazione, cerco se possibile di farmelo anticipare prima di iniziare il lavoro, così da capire come questi siano realizzati. Se la qualità non è secondo me soddisfacente, ma il numero di documenti che devo preparare è ridotto, inizio subito a utilizzare questi “modelli” per produrre la documentazione.

Se però si tratta di un’attività frequente, di solito preferisco investire un po’ di tempo e ricostruire completamente il modello. L’operazione, di solito, mi richiede circa un paio di ore (nel caso di una presentazione qualcosa di più), ma è tempo ben speso, soprattutto per me.

All’apparenza, rispetto al template che mi è stato consegnato, non cambia nulla. Ma il lavoro di produzione della documentazione diventa molto più efficiente, a tal punto da recuperare molto presto il tempo speso per la ricostruzione del modello.