Cominciano a comparire nei blog dei relatori alcune delle presentazioni al recente Information Architecture Summit di Las Vegas. E ce ne sono da leggere con attenzione.
Come per esempio quella di Stephen Anderson, “Creating the Adaptive Inferface” che affronta il problema della progettazione di interfacce che non si manifestino allo stesso modo a tutti gli utenti, ma siano in grado di adattarsi alle diverse esigenze, ai diversi usi, e anche al grado di padronanza che con l’uso l’utente è in grado di dimostrare.
L’idea – non nuova – di Anderson è quella di sfruttare le informazioni “involontariamente” lasciate dall’utente nel sito web, come per esempio l’indirizzo di ip (e quindi, con buona approssimazione, la località) e, nel caso di servizi sotto login o che sfruttino i cookie, le variazione nelle attività dell’utente e la frequenza di utilizzo.
Questo permette al software che produce l’interfaccia di evidenziare le sezioni più richieste a scapito di quelle meno utilizzate, di precompilare alcuni campi in base alle preferenze dell’utente e di personalizzare alcune etichette dell’interfaccia.
Il concetto è sicuramente interessante, come lo sono i diversi esempi presentati. Esistono comunque alcuni fattori da tenere in grande considerazione nel progettare questo tipo di interfacce. Il primo, riconosciuto dallo stesso autore, è che l’utente non va spaventato dandogli a vedere che sappiamo molto di lui: l’aiuto dell’interfaccia dev’essere discreto e non superare mai i limiti della cortesia.
A questo aggiungo che esiste un rischio nel modificare il comportamento dell’interfaccia verso un utente col il progredire della sua esperienza, ed è quello di generare dubbi e confusione perché eravamo convinti “che quel pulsante fosse lì” e che “quella funzionalità si attivasse in quel modo”. Anche queste variazioni vanno studiate con molta cautela.
A me una simile soluzione lascia molti dubbi e perplessità. Oltre al rischio da te segnalato c’è quello che l’utente sostanzialmente si “appiattisca” sul comportamento tenuto le prime volte che è acceduto al sito e, per via dell’interfaccia che tende a riportarlo sempre sulle azioni preferite, finisca con ciò stesso per ignorare le altre opportunità.
Io non vedo molte criticità poichè l’adattarsi è relativo, nella maggior parte dei casi, al contorno della funzionalità (aiuti e scorciatoie) e non alla raggiungibilità della stessa. Se devo cercare il pelo sull’uvo, forse il cambiare la posizione alle cose è l’unico concetto che mi lascia da pensare. Certo che se fatto con buon senso tutto cambia. L’esempio è il menù di Google: perchè esso cambi vuol dire che hai cliccato “more” e quindi sai come recuperare le funzionalità che verranno omesse.
Un dubbio però ce l’ho anche io, ma non tecnico: l’attuazione di questo metodo sembra molto dispendiosa in termini di costi, almeno finché non verranno studiati dei framework atti allo scopo, il mercato riuscirà a percepirne i benefici e giustificarne i costi?
L’dea sembra buona tuttavia secondo me va contestualizzata in funzone della cvomplessità dell’archietettura informativa del sito.
in siti molto complessi potrebbe essere, come segnala anche Jacopo, non molto corretto e anche fuorviante vedersi cambiare degli elementi di interfaccia.
Vedrei bene la soluzione in una interfacci che lascia costanti gli element di navigazione, ad esempio, e fornisce delle aree ben delimitate e contestualizzate in cui si realizza la funzione adattiva… presentando ad esempio delle scorciatoie a parti del sito che l’utente preferisce o che visita più spesso.
Anche se da questo punto di vista l’adattività dell’interfaccia sembrerebbe essere una declinazione verso l’automatismo del vecchio concetto di personalizzazione.